La nota sentenza di Cassazione Civile prima sezione n. 11504 del 10 maggio 2017, con cui si è superato il tabù del tenore di vita nella determinazione dell’assegno di divorzio, ha suscitato grande entusiasmo tra le file degli ex coniugi, di solito i maschi, ingiustamente gravati da un esoso assegno di mantenimento da corrispondere all’ormai non più coniuge. La sentenza. In effetti, interviene su un delicato settore: quello patrimoniale che tante liti suscita in sede di divorzio e lo fa, come notano i giudici del Palazzaccio, dopo ben 27 anni di predominio del mantra: “tenore di vita avuto in costanza di matrimonio”. Come già notato da chi scrive su queste pagine, il tenore di vita in costanza di matrimonio si risolveva, il più delle volte, in una finzione giuridica che non aveva più alcun motivo di essere. Bene ha fatto, dunque, la cassazione ad intervenire in senso innovativo.
La sentenza, però, richiede due considerazioni. La prima è quella che riguarda l’ambito di intervento della cassazione. I supremi giudici si sono pronunciati in materia di divorzio e non di separazione. Il divorzio pone fine al matrimonio e quindi va venire meno, irrevocabilmente, tutti i presupposti di solidarietà che caratterizzano il vincolo coniugale anche dopo la separazione. In altre parole: non è detto che lo stesso principio sia valido anche al fine di determinare l’assegno di separazione.
La seconda considerazione si riferisce alla pressante necessità di regolare, a questo punto e proprio in seguito alla sentenza della cassazione, i cosiddetti patti in vista della separazione o del divorzio che, in Italia, non sono, salvo rare eccezioni, ammessi.
In sostanza: deve essere data la possibilità ai coniugi, prima della separazione o del divorzio, di regolare i loro rapporti patrimoniali, come avviene nella maggior parte dei paesi occidentali, per il tempo in cui non saranno più sposati. Tale regolamentazione pattizia appare oggi tanto più opportuna proprio alla luce della citata sentenza della cassazione, per tutelare il coniuge più debole. Infatti, se l’artificioso parametro del tenore di vita è venuto meno, il coniuge che ha messo a disposizione della famiglia le proprie risorse umane e lavorative, rinunciando – ad esempio – ad una sua proficua carriera lavorativa, deve avere diritto, una volta sciolto il matrimonio, ad un riconoscimento patrimoniale in relazione all’apporto dato al ménage familiare. Oggi, specie dopo la sentenza della cassazione, si rende necessario un intervento legislativo che ammetta, anche in Italia, i patti prematrimoniali, allo scopo di evitare che, dopo il divorzio, uno dei due coniugi, solitamente la donna, possa trovarsi in condizioni di difficoltà economiche dopo avere speso anni e risorse per contribuire al benessere della famiglia.
Se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
Avv. Luigi Cecchini.