Durante il giudizio di separazione, o dopo la relativa sentenza, è possibile far cessare gli effetti della separazione attraverso la riconciliazione. Ciò può avvenire tramite una dichiarazione espressa, oppure attraverso comportamenti di fatto, incompatibili alla separazione stessa.
In ogni caso, “riconciliarsi” significa ripristinare l’unione coniugale goduta in costanza di matrimonio, consolidando nuovamente quella comunione materiale e spirituale su cui si fonda la convivenza.
Non basta la semplice ripresa di quest’ultima, serve una stabile coabitazione da cui traspaia un rinnovato spirito solidale, ispirato all’affetto domestico e propenso all’adempimento dei doveri coniugali a suo tempo assunti.
Solo questa ricostruzione del vincolo di coniugio è idonea ad interrompere la maturazione temporale prevista dalla legge per l’ottenimento del divorzio, attualmente fissate in tre anni dalla separazione.
Una ricostruzione che deve essere solida, non potendo soffrire d’occasionalità o atteggiamenti equivocabili. A titolo esemplificativo, non si può parlare di riconciliazione per un breve periodo di vacanza trascorso con la famiglia, per l’assistenza all’ex coniuge malato, o un’episodica ripresa delle frequentazioni e dei rapporti sessuali, seppur connotati da conseguenti gravidanze.
Lo stesso dicasi per la mera soddisfazione di esigenze abitative, sintomo solo di convivenze sganciate dalle reali vicende del nucleo familiare.
In questi termini, si è recentemente espressa la Cassazione, per la quale non sussiste riconciliazione in caso di coabitazione, peraltro non continuativa, intrapresa dall’ex marito uscito dal carcere per soddisfare esclusivamente esigenze abitative del tutto occasionali.