La convivenza non è un matrimonio. Questo è evidente! Se i partner avessero voluto convolare a giuste nozze lo avrebbero fatto ed avrebbero così potuto usufruire della tutela piena che l’ordinamento appresta per il caso di separazione personale dei coniugi o di divorzio.
Se due persone optano invece per la convivenza è segno che esse vogliono avere, nel bene e nel male, meno vincoli, ma devono essere ben consce, ed il problema riguarda – è ovvio – la parte più debole, che, in caso di fine della convivenza, la tutela sarà minore rispetto a quella riservata al coniuge separato o divorziato.
Il DDL Cirinnà, di cui tanto si è discusso ultimamente, disciplina, oltre alle Unioni Civili tra coppie dello stesso senso, anche la convivenza di fatto e, riguardo a quest’ultimo fenomeno che tanto caratterizza l’ultimo decennio, stabilisce alcune provvidenze e guarentigie a favore del partner più debole che, in sostanza, rinviano all’art 156 del codice civile. Il convivente debole avrà diritto di ricevere dall’altro quanto necessario per il suo mantenimento per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza; mentre, nel caso di cessazione della convivenza, ove ricorrano i presupposti di cui all’articolo 438, primo comma, del codice civile, il convivente avrà diritto di ricevere dall’altro gli alimenti per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza.
Riguardo all’apporto dato dal convivente all’impresa dell’altro il DDL Cirinnà prevede che al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili commisurata al lavoro prestato, sempre che non sia socio né dipendente.
In attesa dell’entrata in vigore della legge sulle coppie di fatto è intervenuta di recente la cassazione stabilendo che “al termine del periodo di convivenza more uxorio può essere stabilito in compenso economico a favore di un partner solo se questi ha svolto a favore dell’altro prestazioni che esulano dai normali doveri materiali e morali, quale il lavoro domestico, il cui assolvimento non da luogo a risarcimento alcuno” (cass. 4.11.2015 – 25.01.2016 n. 1266).