Danno da morte propria della vittima

Trasmissibile il danno da morte della vittima: dal no al “danno tanatologico” al risarcimento della “lesione alla vita” (Cass.civ., sez.III, n.1361 del 23.01.2014).

All’interno della complessa categoria del danno non patrimoniale, dottrina e giurisprudenza maggioritarie avevano fin oggi escluso la risarcibilità del cd. danno tanatologico (o dalla morte in sé).

L’incapacità per gli eredi di far valere iure successionis tale diritto risarcitorio si basava sostanzialmente “sull’impossibilità tecnica di configurare l’acquisizione di un diritto risarcitorio derivante dalla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del titolare, e da questo fruibile solo in natura: e invero, posto che finché il soggetto è in vita, non vi è lesione del suo diritto alla vita, mentre, sopravvenuto il decesso, il morto, in quanto privo di capacità giuridica, non è in condizione di acquistare alcun diritto, il risarcimento finirebbe per assumere, in casi siffatti, un’anomala funzione punitiva, particolarmente percepibile laddove il risarcimento dovesse essere erogato a eredi diversi dai congiunti o, in mancanza di successibili, addirittura allo Stato (Cass.civ.sez.III,n.14259/2011)”.

Non si trattava quindi di un danno alla salute, nella sua accezione di danno biologico derivante da una malattia, né di danno terminale cd. catastrofale, risarcibile per il lasso di tempo intercorrente fra la lesione e la morte, nell’agonia della consapevole attesa della fine.

Il danno da morte immediata o intervenuta a breve distanza di tempo incideva sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita per il definitivo venir meno della vittima non si poteva tradurre in un contestuale acquisto nel suo patrimonio, cui sarebbe corrisposto un diritto al risarcimento trasmissibile agli eredi.

 

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I giudici di legittimità, con un recente cambio di rotta, hanno tuttavia riconosciuto per la prima volta la risarcibilità del “danno alla vita”, trasmissibile iure hereditatis.

La vicenda riguardava un gravissimo sinistro stradale, dove una madre aveva perso la vita, ed il padre, gravemente ferito, si era in seguito suicidato per la depressione indotta dalla perdita della moglie. Ricorrendo in Cassazione, i figli chiedevano il giusto ristorno dei danni sofferti iure proprio e iure successionis.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte giunge a configurare la perdita del bene della vita come risarcibile ex se, quale oggetto di un diritto assoluto e inviolabile, prescindendo dalla consapevolezza o meno che la vittima abbia avuto della sua privazione.

Nella decisione si legge come “il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all’exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacché la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa, bensì di tutto; non solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita; non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di cui consta (va) la vita della (di quella determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l’illecito non ne avesse causato la soppressione”.

Il suo ristoro ha funzione compensativa, ed il relativo diritto è trasmissibile agli eredi.

La sua quantificazione deve essere effettuata dal giudice in via equitativa, condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze concrete. Deve essere favorita la cd. “personalizzazione del danno”, valutando la rilevanza economica di quest’ultimo per gravità della lesione e contesto sociale.

Cosi individuato, si inserirà nella multiforme architettura del danno non patrimoniale, sommandosi alle voci del danno morale, biologico, e danno da perdita del rapporto parentale o cd. esistenziale.