L’entrata in vigore, da poco più di un mese, della legge Cirinnà, che regola le unioni civili tra persone dello stesso sesso e la convivenza tra persone maggiorenni di sesso diverso, obbliga ad alcune riflessioni che prendono spunto dalla introduzione, grazie alla nuova legge, di due discipline giuridiche destinate, a parere di chi scrive, a fungere da apripista per l’introduzione di eguali regolamentazioni anche per le coppie sposate. Mi riferisco al divorzio immediato e ai contratti tra conviventi.
Quanto alla prima disciplina, nel caso di unione civile tra persone dello stesso sesso, l’istituto della separazione personale, alla quale nel caso di coppie etero sposate bisogna accedere prima di ottenere il divorzio, è stato soppresso. La coppia gay, a differenza di quella sposata, potrà divorziare subito, senza bisogno di passare prima dalla separazione.
La nuova disciplina dello scioglimento dell’unione omosessuale è molto più razionale di quella che ancora oggi regola la fine della convivenza matrimoniale. A seguito della recente riforma c.d. del divorzio breve (in realtà ad essere breve è la separazione e non il divorzio) non vi sono ragionevoli motivi per mantenere l’istituto della separazione inteso come primo step per poi passare allo scioglimento (o cessazione degli effetti civili) del matrimonio. Come è noto, a seguito della novella, il periodo di separazione della coppia prima di divorziare è stato ridotto a sei mesi, nel caso di separazione consensuale o negoziazione assistita, e a un anno in caso di separazione giudiziale. La nuova disciplina non ha alcuna giustificazione razionale né legale e rappresenta solo un tempo di attesa che non fa altro che creare seri problemi di coordinamento processuale e sostanziale tra separazione e divorzio.
L’auspicio è che, grazie alle nuove norme sul divorzio immediato in caso di scioglimento del vincolo derivante da una unione civile, il legislatore possa prendere lo spunto per abrogare tout court le norme sulla separazione tra coniugi, consentendo così anche alla coppia etero sposata di giungere subito al divorzio senza passare obbligatoriamente dalla separazione. Si tratterebbe di un passaggio volto ad armonizzare aspetti della vita di coppia che, in sostanza, non differiscono tra loro, almeno sotto il profilo dello scioglimento, evitando così sospetti di incostituzionalità che potrebbero invece profilarsi.
Quanto alla seconda disciplina, quella dei patti tra conviventi, va precisato che questa non è stata introdotta dalla legge Cirinnà. Il ricorso ad una forma di regolamentazione negoziale della convivenza e del post convivenza era già di uso, anche se non comune, da prima dell’entrata in vigore della nuova normativa. La legge Cirinnà ha introdotto i c.d. patti di convivenza che però altro non sono che strumento di disciplina negoziale della convivenza avente efficacia erga omnes, stipulato dalla coppia di fatto con atto pubblico o scrittura privata autenticata. I patti di convivenza regolano gli aspetti patrimoniali della vita della coppia, nulla vieta però che con essi, al pari di quanto avveniva con i patti tra conviventi, la coppia regoli anche gli aspetti patrimoniali della fine della convivenza, cosa che invece è preclusa alla coppia spostata. Nessun divieto di ordine pubblico osta, a mio avviso, a che ciò avvenga. Né la previsione legislativa di cui al comma 65 art. 1, secondo cui il giudice può in caso di fine della convivenza può porre a carico di uno dei due conviventi un assegno alimentare a favore dell’altro che versi in stato di bisogno, ne è di ostacolo. A parere mio, una tale eventualità non esclude la possibile regolamentazione pattizia della fine convivenza, atteso che l’attribuzione di un assegno alimentar, prevista dalla legge Cirinnà, altro non rappresenta che un’applicazione specifica del generale principio codicistico della solidarietà.
Come è noto, invece, per quanto riguarda le coppie sposate il nostro ordinamento pone un divieto di stipulare patti che regolino il futuro scioglimento del vincolo matrimoniale (i c.d. patti in vista della separazione o del divorzio). Si tratta di un divieto assurdo che spinge i legali della coppia ad arrovellarsi per trovare “vie d’uscita” che possano reggere al vaglio giurisdizionale. Un divieto che non trova eguali in altri ordinamenti occidentali e che non ha più motivo di essere mantenuto.
Anche in questo caso l’auspicio è che il legislatore, spronato da una giurisprudenza sempre più critica verso il divieto, possa giungere presto alla introduzione nel nostro ordinamento di norme volte ad attribuire alla coppia sposata il diritto di disciplinare, prima e durante il matrimonio, i rapporti patrimoniali dopo la separazione o il divorzio, nel rispetto, è ovvio, del coniuge più debole e dell’interesse superiore dei figli.