La legge 76/2016, meglio nota come legge Cirinnà, disciplina, tra l’altro, ai commi 50 e 64 i “contratti di convivenza”. In buona sostanza i conviventi possono oggi regolare alcuni aspetti della loro unione in modo preciso e dettagliato con atto scritto (atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato), trasmesso all’anagrafe del comune di residenza dei conviventi per essere reso opponibile ai terzi.
Il notaio o l’avvocato che autentica la firma dei conviventi deve attestare la non contrarietà a norme imperative o all’ordine pubblico delle pattuizioni riportate nel contratto di convivenza.
Secondo la legge Cirinnà i conviventi, grazie al contratto di convivenza, potranno stabilire le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune ed il regime patrimoniale della comunione dei beni. Ad esempio, i conviventi, potranno stabilire che ciascuno di essi debba contribuire alle necessità comuni in proporzione ai propri redditi.
I contratti di convivenza erano noti anche prima dell’entrata in vigore della legge (i patti di convivenza) ed essi, in genere, avevano un contenuto più ampio rispetto a quello tipizzato dalla nuova legge.
Si pone dunque un problema di contenuto dei contratti di convivenza, nel senso di ritenere o meno che i conviventi possano, in e con tali contratti, disciplinare anche altri aspetti della vita comune non espressamente previsti dal legislatore. Il problema assume rilievo anche per il notaio o per l’avvocato chiamato ad attestare la non contrarietà del contratto alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Si è posto, ad esempio, il problema della possibilità di disciplinare, grazie al contratto di convivenza, la cessazione della convivenza stessa, introducendo pattuizioni che regolino obblighi a carico dell’un convivente di corrispondere all’altro una somma di danaro, anche rilevante e quindi ben superiore rispetto a quell’obbligazione alimentare che il comma 67 della legge pone a carico del convivente più abbiente nei confronti dell’altro che versi in stato di bisogno. Oppure si potrà porre il problema di ritenere lecita o meno quella pattuizione che ponga a carico del convivente, che ha ingiustificatamente interrotto la convivenza, un obbligo risarcitorio.
Riguardo al primo punto, trattandosi di diritti disponibili, non si vedono ragioni ostative all’ammissibilità di una simile clausola, fermo restando che sopraggiunte difficoltà di carattere economico rispetto alla condizione esistente al momento della stipula del contratto, potrebbero condurre, in caso di controversia, il giudice ad una diversa quantificazione della somma in un primo tempo pattuita.
Riguardo, invece, all’introduzione, tramite il contratto di convivenza, di una sorta di risarcimento del danno con liquidazione forfettaria ed anticipata per il caso di rottura ingiustificata della convivenza, si nutrono seri dubbi. Invero, una simile clausola, potrebbe essere ritenuta contrastante con il principio costituzionale della libera autodeterminazione.
Naturalmente ciò non toglie che il comportamento di un convivente contrario al principio neminem laedere possa essere valutato dal giudice, così come avviene all’interno della coppia sposata, al fine di una condanna per risarcimento del danno endofamiliare.