La convivenza di fatto assume sempre maggiormente una rilevanza sociale.
La legge 76/2016 l’ha disciplinata, assieme alle unioni civili che però riguardano le coppie omosessuali, di fatto queste equiparate, salvo alcune importanti distinzioni, ai coniugi.
Ma quando si può dire di trovarsi di fronte ad un rapporto di convivenza?
La Suprema Corte ha individuato i caratteri della convivenza more uxorio, affermando che «qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale» si può affermare che tra di esse vi è un vincolo di convivenza.
La giurisprudenza ha individuato alcuni indizi, in presenza dei quali si può parlare di convivenza di fatto, con tutto quel che ne consegue ad esempio in tema di risarcibilità del danno per morte del convivente.
Questi possono essere individuati nella coabitazione, nell’esistenza di un progetto di vita in comune, nell’esistenza di beni in comune, nella esistenza di un conto corrente in comune. Tali indizi devono essere valutati non separatamente bensì nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri.
Una importante conseguenza dell’accertamento di un rapporto di convivenza tra due persone è quella, prevista dall’art. art. 1, comma 65, l. n. 76/2016, ossia la possibilità, per uno dei conviventi, di richiedere, al momento della cessazione della convivenza, un assegno alimentare ai sensi degli artt. 433 ss. c.c.
Presupposto per il riconoscimento dell’assegno alimentare previsto dalla Legge Cirinnà è la cessazione della convivenza in epoca successiva all’entrata in vigore della legge stessa, ossia il 5 giugno 2016. Inoltre, il richiedente, dovrà provare di trovarsi, con riferimento all’epoca di cessazione della convivenza, in uno stato di bisogno.
La domanda di assegno alimentare non potrà, tuttavia, essere proposta nel giudizio sulla responsabilità genitoriale introdotto ai sensi dell’art. 337 bis c.c., bensì dovrà essere introdotta con un autonomo e separato giudizio ordinario. Questa diversità di riti finisce però per tutelare la parte più debole la quale potrà cosi ottenere una pronuncia più sollecita, in quanto emessa nell’ambito del rito camerale quale è quello di cui all’art. 337 bis, in punto di affidamento condiviso, oppure di assegnazione della casa familiare.
Avv. Luigi Cecchini.