Nel diritto di famiglia stanno cadendo, sempre con maggiore frequenza, molti tabù e questo grazie al diritto “pretorile”, cioè alle sentenze dei giudici di merito che, sempre più spesso in assenza di precise guide legislative (si pensi all’adozione del figlio del convivente omosex, volutamente omessa dal testo della legge Cirinnà), attribuiscono diritti e regolano rapporti sulla scorta di principi generali di diritto quali, ad esempio in materia di diritto minorile, il cosiddetto best interest del minore.
Nel solco di tale filone giurisprudenziale l’ordinanza della Corte di appello di Treviso del 23 febbraio 2017 con la quale è stata riconosciuta, nel nostro ordinamento, la sentenza straniera che aveva accertato la genitorialità di un “padre” non biologico ordinandone, di conseguenza, la trascrizione nei registri dello stato civile con tutto quel che ne consegue in punto di acquisizione, da parte del minore, di tutti i diritti derivanti dallo status di figlio.
Ebbene, uno degli ultimi tabù, o dogmi, che invece ancora resiste e che, il più delle volte, si risolve in una vera e proprie astrazione in danno del coniuge obbligato è quello del “mantenimento del tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”.
Come sappiamo l’assegno di mantenimento (art. 156 c.c.) è finalizzato a consentire al coniuge che lo percepisce il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello goduto nel corso della convivenza e quindi va riconosciuto a quello dei due coniugi che non dispone di mezzi tali da consentirgli il raggiungimento di tale obbiettivo, ove sussista disparità economica tra i due coniugi (da ultimo cass. 22.01.2017 n. 605).
La prova del tenore di vita analogo viene data, in giudizio, con svariati mezzi, tra i quali le prove orali e documentali volte a tratteggiare i connotati di una vita particolarmente agiata fatta di cene al ristorante, viaggi esotici, vacanze prolungate.
È chiaro che un siffatto quadro probatorio il più delle volte si risolve in una vera e propria finzione, anche laddove coniuge più forte abbia mantenuto inalterata la propria capacità di reddito.
Infatti la mutualità che caratterizza la vita di coppia consente, frequentemente, di raggiungere livelli di benessere che ben difficilmente possono essere mantenuti, anche per il coniuge economicamente più forte, in caso di separazione. In altre parole la separazione comporta un impoverimento reciproco, non dimostrabile con precisione, indipendentemente dal mantenimento del livello reddituale.
Alla luce di tali semplici considerazioni appare del tutto forzato riconoscere al coniuge debole un assegno di mantenimento volto a consentirgli un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di convivenza coniugale.
Più corretto sarebbe parametrare l’assegno di separazione alle necessità di una vita dignitosa per il coniuge richiedente, in relazione alle sostanze dell’obbligato, abbandonando però il concetto, rivolto al passato, di tenore di vita antecedente alla crisi coniugale.
Avv. Luigi Cecchini.