L’assegnazione della casa familiare in sede di separazione e divorzio è argomento decisamente dibattuto sia in dottrina che giurisprudenza.
Frequente causa di conflitto tra i coniugi nei giudizi successivi alla crisi del rapporto matrimoniale, sconta anche una difformità di vedute sull’individuazione dei presupposti che condizionano la concessione dello stesso diritto all’abitazione.
Ma cosa si intende per “casa familiare”? In essa vengono ricompresi quei beni, mobili e immobili, finalizzati all’esistenza domestica della comunità familiare, ed alla conservazione degli interessi in cui si esprime e si articola la vita familiare.
Assieme all’appartamento, vi rientrano pertanto tutti gli elementi che individuano lo standard di vita familiare: mobili, arredi, elettrodomestici e servizi, eccettuati quei beni strettamente personali o riservati ai bisogni peculiari del coniuge privato del godimento della stessa. Ne fanno parte anche le pertinenze, quali box auto, poiché destinate a soddisfare specifiche esigenze del coniuge assegnatario e dei figli ad esso affidati.
La disciplina legislativa dedicata all’individuazione della ragione e dei criteri per l’assegnazione della domus familiae è assai frammentaria. Alla regolamentazione codicistica (vedi 155quater) fa eco quello speciale della Legge sul divorzio (art.6, come novellato dalla L.74/1987), senza però riuscire, come menzionato, a dettare criteri chiari e univoci per applicazione dell’istituto. Unico elemento ricorrente è la primaria considerazione dell’interesse dei figli, il cui genitore affidatario viene preferito in sede di assegnazione anche se la prole convivente sia maggiorenne. Ecco perché in ambito giuridico si registrano due orientamenti di segno opposto, col primo (dominante e più restrittivo) che ammette l’assegnazione della casa familiare al coniuge non proprietario solo in presenza di un provvedimento di affidamento della prole.
Non a caso, anche la recente giurisprudenza di merito (Trib.Milano, n.3439/2013) considera il diritto ad abitare quale strumento per la conservazione della comunità domestica, giustificandolo solo per l’interesse materiale della prole affidata. In assenza di figli minori o maggiorenni non economicamente indipendenti, la casa coniugale non può essere assegnata.
Vi sono però delle situazioni in cui il tetto domestico assegnato in sede giudiziale non corrisponde più al centro di aggregazione della vita familiare, poiché i suoi componenti hanno deciso di spostarlo altrove, oppure solo sporadicamente ne fanno utilizzo.
Cosa succede allora se la casa familiare viene sostituita da altra ad opera degli stessi assegnatari? Una recente pronuncia della Cassazione ha sancito come sia legittima la revoca della casa familiare in città se l’ex moglie preferisce stare nella casa al mare col figlio convivente (Cass.civ. sez.I, n.2952 del 10.02.2014). Nel giudizio d’appello era stata confermata la revoca sull’assunto che la dimora cittadina veniva utilizzata dall’assegnataria solo saltuariamente qualche fine settimana, per consentire al figlio minore una maggiore libertà di movimento o per farvi incontrare i due fratelli. Viceversa, la madre e il figlio convivente si erano di fatto trasferiti in una località marittima. Ricorrendo in cassazione, la donna lamentava come l’originario habitat domestico non fosse stato abbandonato, ed il prioritario interesse del figlio convivente al suo mantenimento. Soltanto il venire meno di quest’ultima esigenza primaria avrebbe fondato la richiesta dell’altro coniuge, titolare del diritto di proprietà, alla revoca dell’assegnazione della casa familiare.
La Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha tuttavia confermato le decisioni della sentenza di merito, adeguatamente giustificata sia per ricostruzione probatoria che per la finale conclusione centrata sulla volontarietà della scelta del mutamento di abitazione familiare da parte della ricorrente.